La prima notizia certa sulla chiesa di San Lazzaro risale al 1157, in quella data, infatti, l’aristocratico pavese Gislenzone Salimbene, insieme ai figli Siro e Malastreva, donò alla chiesa e al vicino ospedale alcune proprietà fondiarie, assicurandosi così il giuspatronato sull’ente e, di conseguenza, la facoltà di nominare il rettore o il ministro (da scegliere esclusivamente tra i membri della famiglia) dell’ospedale. Non sappiamo se il luogo dove sorse la chiesa fosse stato già precedentemente sede di altri edifici: nel 1897 nella vicina cascina fu rinvenuta un’ara votiva in granito risalente alla metà del II d.C. con dedica a Giove Optimus Maximus (ora conservata nel cortile del Seminario Vescovile), mentre in un campo situato presso la chiesa furono ritrovate, sempre nell’Ottocento, tombe alla cappuccina di età romana. Nel 1216 il vescovo di Pavia Folco Scotti concesse all’ospedale uno statuto con il quale venivano stabilite le regole che dovevano rispettare i degenti (definiti nel documento genericamente infirmi, senza specificare da quale malattia essi fossero afflitti). I malati dovevano provenire esclusivamente dal distretto o dalla diocesi di Pavia e se essi erano in possesso di beni dovevano lasciarli all’ospedale, chiaramente dopo aver reso agli eventuali figli la parte spettante a loro. Gli indigenti venivano invece accolti gratuitamente. I ricoverati dovevano seguire precise regole morali: astenersi dai peccati, quali il furto, l’adulterio o la fornicazione, e dai vizi, il gioco d’azzardo in particolare. Ai malati era vietato uscire dall’ospedale, anche solo per chiedere l’elemosina: in caso di inadempienza sarebbero stati puniti con il digiuno. All’interno della struttura gli spazi destinati ai due sessi erano separati e gli uomini erano assistiti da conversi di sesso maschile, mentre le donne da converse, veniva fatta un’eccezione solo per le mogli che decidevano di accudire il proprio marito ricoverato all’interno della struttura ospedaliera. A tutti i malati erano corrisposti quotidianamente i pasti e veniva fornito il vestiario. Non dissimili, nello statuto, erano le regole che normavano (almeno idealmente) l’attività e la vita dei conversi: anch’essi occupavano spazi separati in base al sesso, dovevano condurre una vita moralmente ineccepibile, ricevevano vitto, alloggio e vestiario dall’ospedale e, inoltre, erano tenuti, come i ricoverati, a cedere i loro beni all’ente. Il ministro, detto anche rettore, coordinava l’attività dell’ospedale, gestiva le proprietà fondiarie e gli introiti dello stesso, controllava la condotta morale dei malati e dei conversi. Almeno due volte al mese era obbligato a presentare ai conversi e ai patroni (i Salimbene) un rendiconto delle entrate e delle uscite dell’ente e, inoltre, periodicamente doveva illustrare ai patroni quanto era stato fatto durante il suo mandato. L’ospedale si sosteneva non solo con le elemosine e le donazioni, spesso ricevute per via testamentaria, ma soprattutto grazie alle rendite derivate dai fondi agricoli controllati dall’ente e gestiti dal ministro. Essi erano collocati nei dintorni dell’ospedale e in alcune località del distretto: Corbesate, Cura Carpignano e Ottobiano e misuravano 3.575 pertiche pavesi, equivalenti a circa 275 ettari. Nonostante questa più che discreta dote, la capacità ricettiva dell’ospedale non fu, probabilmente, mai elevatissima: dagli atti della visita pastorale del 1460 (l’unico dato certo di cui disponiamo) siamo informati che la struttura disponeva (almeno in quella data) di quattro posti letto, solo due dei quali occupati da altrettanti lebbrosi, seguiti da due ospitalieri.
Gian Galeazzo Visconti accordò all’ente privilegi e immunità (soprattutto in materia di esenzione fiscale) nel 1379, riconfermate nel 1383 e, dai suoi successori, nel 1403 e lo stesso fecero i papi Martino V nel 1426 e Paolo II nel 1466. Grazie a questi documenti sappiamo che l’ospedale si era specializzato nell’assistenza ai malati di lebbra, anche se in occasione di alcune epidemie, nella seconda metà del XV secolo, esso dovette ospitare, in via del tutto straordinaria, insieme a San Giovanni delle Vigne e Santa Croce, anche gli appestati. Le autorità comunali di Pavia, contrariamente ad altre città, quali Milano, non furono mai favorevoli alla costruzione di un ricetto stabilmente destinato ai malati di peste (solo dopo il 1630 verranno creati a Pavia due lazzaretti), preferendo invece separare i malati dal resto della popolazione inviandoli sui “mezzani”, grosse isole fluviali poste sul Ticino e sul Po, una della quali era situata a valle di San Lazzaro, dove ora si trova la cascina Mezzana degli Ammorbati.
Durante l’assedio del 1524, conclusosi con la battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525, il complesso di San Lazzaro venne occupato per mesi dai mercenari svizzeri al soldo del re di Francia Francesco I e subì profondi danneggiamenti e ulteriori guasti furono dati dagli eserciti che si cimentarono negli assedi dalla città del 1527 e del 1528. Sempre nel corso del XVI secolo, la lebbra perse progressivamente recrudescenza costringendo l’ente a rivolgere sempre più le sue attenzioni al soccorso degli indigenti, tanto che nel 1560 l’ospedale fu trasformato in ospizio e destinato all’assistenza dei poveri. Papa Pio IV, nel 1565, elevò la chiesa e l’ospedale a commenda dell’ordine di San Lazzaro, poi unito, nel 1572, a quello di San Maurizio: San Lazzaro divenne così una commenda del nuovo ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Per un decennio, dal 1571 al 1581, la chiesa fu eretta a parrocchia e officiata dal parroco di San Leonardo (un borgo posto a est della città), ma per volere del vescovo Ippolito de’ Rossi essa fu soppressa e unita a quella di San Pietro in Verzolo.
In occasione dell’assedio che subì Pavia nel 1655 a opera delle forze del re di Francia e dei duchi di Savoia e di Modena, la chiesa e l’ospedale furono occupati dai francesi, riportando, ancora una volta, pesanti danni. Non molti anni dopo, nel 1668, il plurisecolare giuspatronato dei Salimbene passò, per via ereditaria ad altre stirpi aristocratiche, quali gli Olevano, i della Porta, i Malaspina, i Moriggia e la commenda visse anni di profonda decadenza: la chiesa venne progressivamente abbandonata e l’ospizio fu ridotto ad abitazioni dei coltivatori del fondo. Il declino della chiesa ebbe una battuta d’arresto, nel 1831, quando la commenda passò a Luigi Lorenzo di Conturbia, che, nel 1847 fece risistemare e riaprire al culto la chiesa. Tuttavia, pochi anni dopo, grazie ad alcune nuove leggi introdotte nel regno di Sardegna (pur essendo San Lazzaro all’interno del regno Lombardo-Veneto, l’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro dipendeva da casa Savoia) il Conturbia riuscì a ottenere la soppressione della commenda e la conseguente alienazione a privati dei suoi beni.